ETTORE PINELLI // MONO
dal 10.3 al 21.4.2018
dal 10.3 al 21.4.2018
Ettore Pinelli
MONO a cura di Barbara Fragogna con testi di Barbara Fragogna e Gabriele Salvaterra Inaugurazione sabato 10 marzo - ore 19 dal 10.3 al 21.4.2018 Gio - Sab // 16 - 19.30 e su appuntamento La Fusion Art Gallery - Inaudita presenta la mostra MONO di Ettore Pinelli, artista siciliano, tra le altre cose, finalista del premio Cairo 2017. MONO è un progetto che si sviluppa attorno ad una singola immagine. Il lavoro di Ettore si basa su una ricerca concettuale costante, a cui si unisce uno sperimentalismo tecnico in continua evoluzione. La mostra rientra nella programmazione di NEsxT – Indepentent Art Festival ed è parte del circuito COLLA e di ContemporaryArt Torino e Piemonte. |
Fusion / Inaudita è un progetto di
Associazione INAUDITA In collaborazione con: Edizioni Inaudite, COLLA/To contemporary art network NEsxT / Independent Art Network ContemporaryArt Torino+Piemonte |
A seguire 2 testi di Barbara Fragogna e Gabriele Salvaterra.
Cerco sempre, attraverso il caso e l’accidentalità, di trovare un modo perché l’apparenza sia là, rifatta però a partire da altre forme. – Francis Bacon
Visibile manifesto (monologico)
di Barbara Fragogna
Orizzonte degli eventi, superficie limite, singolarità, orizzonte interno, spazio-tempo. Il progetto “Mono” di Ettore Pinelli è un acceleratore di particelle, un’idea che devo, per esigenze ineluttabili e cellulari, legare a scenari cosmici. Perché è l’idea stessa (o la pre-idea?) dove nell’uno si svela l’intrigo del tutto, che dà origine a questo processo/procedura/sviluppo.
Oltre la pittura e il soggetto, oltre a un qualsiasi significato, Pinelli concretizza un Big Bang vorticoso. Il suo è il film del rewind lanciato avanti in un fast far-ward furioso, un esploso congelato pieno di filacci, zoom, tasselli, crops, polveri, colate, gesti, sfiati, strappi, still. Il momento in cui si tappano le orecchie e si perde l’equilibrio, un calo di pressione, un giramento, un’euforia inquietante e magnifica inalazione d’ossigeno. Superfici stratificate come sedimenti in cui ogni filo tracciato dalle setole è un’era. Immagino uno slittamento ortogonale della tela/supporto e che ogni sua linea/strato si sviluppi su di un piano estruso e successivo. Come un rendering digitale. In questo ambiente di aggregazione e disfacimento, di errore sapiente e accidente, di materia e vapori, di saturo e insaturo, di colore e di grigio, in questo ambiente ciclonico e uroborico, l’occhio dello spettatore si trova al centro della giostra che è l’ubiquo MONO zootropico, il dispositivo ottico che muove, esalta e aumenta la realtà del lavoro sotto tutti i suoi aspetti. Livelli sovrapposti, sfalsati, dislocati sono interpreti e ripetitori polifonici, mezzi attraverso cui esplorare la possibilità.
Affascinano la mantramania del concetto, la compulsione della pratica artistica veloce e forsennata (monologo), l’euforia del rinfrancamento, la pervicacia nel perseguire la sintesi, il serissimo discorso sull’arte come consapevole visione privata del circostante. L’interesse dell’artista è nella ricerca, nella riflessione e nella pratica attraverso il movimento e l’espansione del gesto, deve perciò (contrastando la sua peculiare natura minuziosa e analitica) togliersi di dosso l’esubero di pensiero, di razionalità, di conoscenza, deve eliminare la pittura della pittura, la figura della figura, la superficie della superficie, deve essere capace di sbagliare con competenza, di affermarsi per mezzo di una parossistica negazione, deve uscire dallo stereogramma di sé. Ettore Pinelli è in grado di focalizzare perché amplifica, disfacendone l’immagine, la metafora dell’esistenza. Il suo monolite è una cellula piena di particelle, è la macro di un dettaglio da misurare in micron.
Al di là della tecnica e dell’indubbia capacità dell’artista di sviscerare il tono dal mono-tono, l’oggetto dal soggetto e il senso dal significato, andando oltre la percezione dell’immagine (non immagine?), intrappolati nell’occhio acquisiamo una capacità di visione ex-novo, come se un predeterminato rosa fosse il filtro/retina della percezione di una realtà diversamente reale (non immaginaria ma iper-reale), come se quel rosa fosse il monitor/schermo disturbato e distorto (il vetro di Bacon?) che ci separa e contemporaneamente fonde col frangente (un’atmosfera?), come se il rosa (pervinca?) nella sua radiazione ultravioletta fosse il portale ad una gamma fatalmente accessibile.
Chiavi di lettura, espansioni del punto di fuoco, irradiazioni, fotogrammi, evoluzioni, sviluppi, tentativi, frammenti.
Uno - tutt’uno.
Mille modi per distruggere un’immagine
di Gabriele Salvaterra
È diventato ormai un luogo comune quello che descrive la percezione della realtà negli ultimi cinquant’anni come un’esperienza segnata dalla mediazione continua di un flusso soverchiante di immagini. Queste - prima attraverso la stampa e la televisione, oggi sempre più immateriali e legate alla presenza costante di smartphone e pc nelle nostre vite - hanno del resto giustificato, per la sua veridicità, una presa d’atto da parte di molte persone di questo dato. Perciò non è affatto infrequente leggere testi o discutere con persone che sottolineano, con toni accusatori o entusiasti a seconda dei casi, una presenza imprescindibile dell’immagine nel nostro modo di guardare il mondo. A più di ottant’anni dal citatissimo saggio di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, qualsiasi cosa, persino noi stessi, entra in un canale di riproduzione iconografica che ne suddivide e ripropone l’essenza in una miriade di sfaccettature incontrollabili tendenti a non avere più effetti per la loro eccessiva quantità.
Ciò che Ettore Pinelli realizza in questo progetto, un’intera mostra creata a partire da una singola immagine ripetuta ossessivamente, è in qualche maniera una sovversione dell’impianto teorico proposto da Benjamin nel suo celebre trattato. Si potrebbe parlare di un’opera d’arte in una condizione di unicità plurima dove i lavori nascono manualmente, dichiarando la propria singolarità individuale, ma d’altra parte germinando di continuo come riproduzioni l’uno dall’altro. Sembra trattarsi di una rivincita aggressiva all’immagine contemporanea che non nasconde neppure un fascino morboso verso la stessa.
Guardando a questo approccio originale a un unico soggetto si pensa quasi che per Pinelli la soluzione a un problema, come spesso accade nella realtà, sia un immergersi totalmente in esso, abbracciarlo integralmente prima di capire se sia possibile cancellarlo o, al contrario, esserne annichiliti. In questa attitudine l’indigestione anticipa la valutazione del possibile soffocamento o, viceversa, dell’auspicata liberazione, cosicché la verifica non avviene attraverso un lento abituarsi alle situazioni, ma prendendole di petto, esageratamente, in uno scontro con l’immagine e il soggetto in cui non è chiaro se l’autore riuscirà a uscire dal labirinto o perirà nelle sue spire. L’immagine è glorificata e assassinata allo stesso tempo e la ripetitività con cui viene adottata dimostra anche il suo essere semplice pretesto per poter sviluppare un corpus di lavori potenzialmente infinito. E qui sta un interessante paradosso: l’uomo produce più immagini di quante ne è in grado di gestire, archiviare e ricordare nell’arco dell’esistenza, eppure, lo dimostra questo progetto, ne basterebbe una soltanto per coprire la memoria di una vita, una soltanto per poterne parlare per sempre.
L’unico soggetto della mostra, una scena di aggressione tra ragazzi, è ormai così distanziato dalla realtà di provenienza da assumere le sembianze di un ricordo fantasmatico attenuato attraverso ulteriori processi di mediazione artistica e manuale. Il maggior pregio di questi lavori risiede forse nell’apertura che Pinelli impone al soggetto di partenza, da cui si può comprendere la principale filiazione con il pensiero e la pratica di Gerhard Richter: l’immagine artistica è conclusa paradossalmente nella misura in cui riesce a essere inconclusa, aperta e polisemica. Come in quelle opere che tendo a definire “cieli violenti” (Zoom in, 2018), dove la scena di aggressione è minimamente percepibile e resa evanescente nei colori autunnali di una volta celeste appena percorsa dagli indizi di un dramma. È qui che si rivela la maggiore sfida dell’autore alle immagini contemporanee, presenze della nostra vita che parlano sempre chiaramente e direttamente, dicendo: “applaudi”, “ridi”, “scandalizzati”, “acquista”, “indignati”. Pinelli, come se il processo creativo non fosse questione di addizione o potenziamento ma di liberazione e superamento dei blocchi imposti esternamente dalla realtà, sgrava l’immagine da tutta la sua funzionalità per mantenersi in quell’alone di sospensione indeterminata dove anche lo sguardo ritrova una propria autonomia critica.
Tanti modi, insomma, per distruggere un’immagine o farla rivivere sotto altre spoglie.
febbraio 2018
di Gabriele Salvaterra
È diventato ormai un luogo comune quello che descrive la percezione della realtà negli ultimi cinquant’anni come un’esperienza segnata dalla mediazione continua di un flusso soverchiante di immagini. Queste - prima attraverso la stampa e la televisione, oggi sempre più immateriali e legate alla presenza costante di smartphone e pc nelle nostre vite - hanno del resto giustificato, per la sua veridicità, una presa d’atto da parte di molte persone di questo dato. Perciò non è affatto infrequente leggere testi o discutere con persone che sottolineano, con toni accusatori o entusiasti a seconda dei casi, una presenza imprescindibile dell’immagine nel nostro modo di guardare il mondo. A più di ottant’anni dal citatissimo saggio di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, qualsiasi cosa, persino noi stessi, entra in un canale di riproduzione iconografica che ne suddivide e ripropone l’essenza in una miriade di sfaccettature incontrollabili tendenti a non avere più effetti per la loro eccessiva quantità.
Ciò che Ettore Pinelli realizza in questo progetto, un’intera mostra creata a partire da una singola immagine ripetuta ossessivamente, è in qualche maniera una sovversione dell’impianto teorico proposto da Benjamin nel suo celebre trattato. Si potrebbe parlare di un’opera d’arte in una condizione di unicità plurima dove i lavori nascono manualmente, dichiarando la propria singolarità individuale, ma d’altra parte germinando di continuo come riproduzioni l’uno dall’altro. Sembra trattarsi di una rivincita aggressiva all’immagine contemporanea che non nasconde neppure un fascino morboso verso la stessa.
Guardando a questo approccio originale a un unico soggetto si pensa quasi che per Pinelli la soluzione a un problema, come spesso accade nella realtà, sia un immergersi totalmente in esso, abbracciarlo integralmente prima di capire se sia possibile cancellarlo o, al contrario, esserne annichiliti. In questa attitudine l’indigestione anticipa la valutazione del possibile soffocamento o, viceversa, dell’auspicata liberazione, cosicché la verifica non avviene attraverso un lento abituarsi alle situazioni, ma prendendole di petto, esageratamente, in uno scontro con l’immagine e il soggetto in cui non è chiaro se l’autore riuscirà a uscire dal labirinto o perirà nelle sue spire. L’immagine è glorificata e assassinata allo stesso tempo e la ripetitività con cui viene adottata dimostra anche il suo essere semplice pretesto per poter sviluppare un corpus di lavori potenzialmente infinito. E qui sta un interessante paradosso: l’uomo produce più immagini di quante ne è in grado di gestire, archiviare e ricordare nell’arco dell’esistenza, eppure, lo dimostra questo progetto, ne basterebbe una soltanto per coprire la memoria di una vita, una soltanto per poterne parlare per sempre.
L’unico soggetto della mostra, una scena di aggressione tra ragazzi, è ormai così distanziato dalla realtà di provenienza da assumere le sembianze di un ricordo fantasmatico attenuato attraverso ulteriori processi di mediazione artistica e manuale. Il maggior pregio di questi lavori risiede forse nell’apertura che Pinelli impone al soggetto di partenza, da cui si può comprendere la principale filiazione con il pensiero e la pratica di Gerhard Richter: l’immagine artistica è conclusa paradossalmente nella misura in cui riesce a essere inconclusa, aperta e polisemica. Come in quelle opere che tendo a definire “cieli violenti” (Zoom in, 2018), dove la scena di aggressione è minimamente percepibile e resa evanescente nei colori autunnali di una volta celeste appena percorsa dagli indizi di un dramma. È qui che si rivela la maggiore sfida dell’autore alle immagini contemporanee, presenze della nostra vita che parlano sempre chiaramente e direttamente, dicendo: “applaudi”, “ridi”, “scandalizzati”, “acquista”, “indignati”. Pinelli, come se il processo creativo non fosse questione di addizione o potenziamento ma di liberazione e superamento dei blocchi imposti esternamente dalla realtà, sgrava l’immagine da tutta la sua funzionalità per mantenersi in quell’alone di sospensione indeterminata dove anche lo sguardo ritrova una propria autonomia critica.
Tanti modi, insomma, per distruggere un’immagine o farla rivivere sotto altre spoglie.
febbraio 2018
Ettore Pinelli (Modica, 1984)
Formatosi in Accademia di belle arti di Firenze, si diploma in pittura nel 2007 e in progettazione e cura degli allestimenti nel 2010 in collaborazione con il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato. Nel 2009 fonda .LAB (Young Artists Sharing Ideas | Firenze)
Nel 2014 è selezionato per la 1ª edizione del Premio FAM Giovani per le arti visive (AG). Nel 2015 partecipa al Workshop Residenza Ritratto a Mano 2.0 con Simone Berti e Valentina Vetturi, a cura di Giuliana Benassi e Giuseppe Pietroniro, Caramanico Terme (PE) e sempre nel 2015 é selezionato da Eva Comuzzi ed Andrea Bruciati per Some Velvet Drawings (ArtVerona). Tra il 2015 e il 2016 è finalista in numerosi premi tra cui il Premio Fondazione San Fedele (Milano), Premio Combat Prize (Livorno), Premio Arteam Cup (Alessandria) e Premio Francesco Fabbri (Treviso). Nel 2015 è vincitore del Premio Marina di Ravenna e nel 2016 del Premio We Art International (Milano) in collaborazione con Basement Project Room (LT). Nel 2015 è artista selezionato dai curatori del premio ORA. Nel 2016 è uno dei finalisti di TU 35, geografie dell’arte emergente in Toscana, promosso dal Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato. Artista inserito da Camillo Langone in Eccellenti Pittori, il diario della pittura italiana vivente. Presente nella collezione Identità Siciliane di Imago Mundi, Fondazione Benetton. Nel 2017 partecipa a Modernolatria Boccioni+100 esponendo alla Galleria Nazionale di Cosenza. Nel 2017 è finalista al 18º Premio Cairo (Palazzo Reale Milano). Invitato da I Martedì Critici a partecipare alla 5ª sessione del progetto di Residenze Artistiche Bocs Art a cura di Alberto Dambruoso (Cosenza). Menzionato dalla rivista Arte (Cairo Editore) come uno degli artisti under 40 significativi dello stato della ricerca artistica italiana.
Formatosi in Accademia di belle arti di Firenze, si diploma in pittura nel 2007 e in progettazione e cura degli allestimenti nel 2010 in collaborazione con il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato. Nel 2009 fonda .LAB (Young Artists Sharing Ideas | Firenze)
Nel 2014 è selezionato per la 1ª edizione del Premio FAM Giovani per le arti visive (AG). Nel 2015 partecipa al Workshop Residenza Ritratto a Mano 2.0 con Simone Berti e Valentina Vetturi, a cura di Giuliana Benassi e Giuseppe Pietroniro, Caramanico Terme (PE) e sempre nel 2015 é selezionato da Eva Comuzzi ed Andrea Bruciati per Some Velvet Drawings (ArtVerona). Tra il 2015 e il 2016 è finalista in numerosi premi tra cui il Premio Fondazione San Fedele (Milano), Premio Combat Prize (Livorno), Premio Arteam Cup (Alessandria) e Premio Francesco Fabbri (Treviso). Nel 2015 è vincitore del Premio Marina di Ravenna e nel 2016 del Premio We Art International (Milano) in collaborazione con Basement Project Room (LT). Nel 2015 è artista selezionato dai curatori del premio ORA. Nel 2016 è uno dei finalisti di TU 35, geografie dell’arte emergente in Toscana, promosso dal Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato. Artista inserito da Camillo Langone in Eccellenti Pittori, il diario della pittura italiana vivente. Presente nella collezione Identità Siciliane di Imago Mundi, Fondazione Benetton. Nel 2017 partecipa a Modernolatria Boccioni+100 esponendo alla Galleria Nazionale di Cosenza. Nel 2017 è finalista al 18º Premio Cairo (Palazzo Reale Milano). Invitato da I Martedì Critici a partecipare alla 5ª sessione del progetto di Residenze Artistiche Bocs Art a cura di Alberto Dambruoso (Cosenza). Menzionato dalla rivista Arte (Cairo Editore) come uno degli artisti under 40 significativi dello stato della ricerca artistica italiana.
ARTIST STATEMENT
Il mio lavoro si basa su una ricerca concettuale costante, a cui si unisce uno sperimentalismo tecnico in continua evoluzione, ogni lavoro, si satura e si autodistrugge fino ad una situazione di nuovo equilibrio. Sarebbe più facile parlare di pittura come di disegno, ma in realtà le dinamiche sono tutt’altro che semplici e discorsive, un continuo porsi in maniera interrogativa rispetto alle cose e le situazioni. Nel mio lavoro mi interessa indagare attraverso la pittura e il disegno, come un medium, oscillando tra sottili equilibri, che fanno leva sul dato esistenziale, rivelando dubbi, incertezze, ambiguità.
Le mie immagini spesso hanno un carattere autoreferenziale, appartengono alla mia esistenza o a quella di altri, fanno capo all’esperienza e al ricordo, o sviluppando tematiche trasversali, sono la parte residua di visioni, intuizioni, possibilità che il mondo mediatico svela quotidianamente e che possono essere analizzate.Credo molto nella figurazione come la prima istanza di un dato interrogativo che riguarda l’esistenza di ognuno, da qui la possibilità di disfarsene fino a lasciarne solo una traccia. Attualmente la mia attenzione è rivolta ad “altre tipologie di relazione”, una tematica progettuale in divenire dove le immagini che sviluppo divergono dalla consueta proiezione mentale rispetto all’idea di relazione, quindi di contatto (che sia umano o animale poco importa). Mi interessa sviluppare il dato dinamico (istintivo) e vitale di un’immagine, a partire dal concetto stesso di vitalità dei corpi, di movimento, di relazione tra corpi.Il disegno è il mezzo più sintetico e più lontano da archetipi per tentare di rendere in maniera efficace quest’idea. |
My work is based on a continuous conceptual research, which joins an experimentation evolving technically, in every new work it becomes saturated and destroys itself until a state of a new balance is created. It would be easier to speak about painting as a drawing, but really the dynamics are far from simple and discursive, continuously questioning yourself about things and situations.
In my work I'm interested to investigate through the painting and drawing as a medium, ranging from subtle balances, which plays the existential, revealing doubts, uncertainties, ambiguities. My images often have a self-referential character, they belong to my own existence or to others, as part of experiences and remembrance, or developing matters of transversal interests, as the residual part of visions, insights, chances that the daily media world may reveal and may be analyzed. In figurative art, I believe as first instance of a certain question that concerns the existence of each other from here the possibility to discard it or to keep only one single trace. Currently my focus is to "other types of relationships" , a thematic project in progress where the pictures that development diverge from the usual mental projection to the idea of relationship , then contact (be it human or animal does not matter) . I'm interested in developing the dynamic data ( instinctive ) and vital of an image , starting from the concept of the vitality of the bodies , of movement , of the relationship between bodies. The drawing is the most concise and further way from archetypes to make this idea effectively. |
AVAILABLE WORKS (currently on view at the gallery)
for more work please don't hesitate to ask the complete works PDF writing to: [email protected] |
PAST:
ENRICO TEALDI . DAVIES ZAMBOTTI . ETTORE PINELLI
CONDENSA
Inaugurazione sabato 21 gennaio ore 19
CONDENSA
Inaugurazione sabato 21 gennaio ore 19
Enrico Tealdi
Davies Zambotti Ettore Pinelli CONDENSA a cura di Barbara Fragogna Inaugurazione sabato 21 gennaio ore 19 dal 21.1 al 25.2.2017 Gio - Sab // 16 - 19.30 e su appuntamento |
Websites:
Enrico Tealdi Davies Zambotti Ettore Pinelli In collaborazione con: Fusion Project, Edizioni Inaudite, e nel'ambito di COLLA/To contemporary art network NEsxT / Independent Art Network ContemporaryArt Torino+Piemonte |
CONDENSA/CONDENSE
di Barbara Fragogna
"L'incertezza è l'habitat naturale della vita umana, sebbene la speranza di sfuggire ad essa sia il motore delle attività umane. Sfuggire all'incertezza è un ingrediente fondamentale, o almeno il tacito presupposto, di qualsiasi immagine composita della felicità. È per questo che una felicità "autentica, adeguata e totale" sembra rimanere costantemente a una certa distanza da noi: come un orizzonte che, come tutti gli orizzonti, si allontana ogni volta che cerchiamo di avvicinarci a esso." - Zygmunt Bauman
Venuta meno l'influenza anestetizzante dell'abitudine, mi mettevo a pensare, a sentire cose infinitamente tristi. – Marcel Proust
L’acqua di condensazione si frammenta in particole a volte estese e a volte minuscole e diventa schermo/filtro/lente per osservare, traducendolo in senso, il circostante. La condensa agglutina/sintetizza/addensa l’umore dell’occhio come un vapore, una nebbia che sale dal sedimento substrato transitando l’immagine-ricordo dal passato al presente. Sembra che ci sia un velo effimero a separare la nitidezza del reale dalla nostra percezione conscia ma nel lavoro di Tealdi, Zambotti e Pinelli, nonostante la peculiarità dei rispettivi casi specifici, si tratta sempre di un velo integrato, atmosfera lattiginosa incisa sulla retina, aria polverosa di un esistenzialismo fuori moda ma onesto e per questo puntuale, un tessuto di garza logoro di esperienze.
In Enrico Tealdi la condensa s’intride di memoria umida, uno sguardo apparentemente lontano che cerca indistinte figure di bagnanti che sono pagliuzze d’oro setacciate in Batee di carta e pigmento e velatura e tempo.. e tempo. Sembra di sentirla, la sabbia raspare sulla superficie diradando per scoprirne i preziosi ricordi, le persone perdute. E sembra di vederle apparire (ma non ci sono, sono chimere) dai campi da calcio solitari nei Nimbi, la poesia. C’è un silenzio profondo fatto di onde, vento, erba, mormorii, bisbigli e sussurri, c’è l’attesa e la stasi, c’è sospensione di movimento, c’è il pensiero, c’è la presenza fisica e pesante di tutto questo. I lavori sono distese sterminate addensate su piccolo formato, un nucleo precipitato che contiene il potenziale dell’esplosione del sentimento, ancora, la poesia esistenziale e malinconica, il delirio.
In Davies Zambotti la condensa è il fiato dalla bocca, sul vetro. Di oblò/sportelli/boccaporti, finestre sull’oltre. Il filtro è fotografico doppio o multiplo: occhio/lente/vetro/nebbia. Nelle sue Lande rincorre il fuoco fisso del movimento. La sfocatura e la dissolvenza, il paesaggio dirada e ritorna, dirada e ritorna, dirada e ritorna… un mantra, da dentro a fuori e viceversa. Il pensiero circolare, il loop compulsivo fugge ed evapora poi torna. La memoria è famigliare, i ritorni vengono sempre, sempre, sempre dal passato. Remoto. Condensa-densa come piombo. La pellicola è il suo viluppo e lo schermo non la protegge perché lo schermo è vacuo e osmotico. I paesaggi sfuggono, con uno sforzo istintivo cerchiamo di vederli nitidi ma non possiamo. Dopo un attimo ci abbandoniamo in essi lasciando che diventino lo spazio/interstizio, portale che, senza rendercene conto, apre un varco nel pensiero. Perdendosi nel privato.
In Ettore Pinelli la condensa è obnubilante. Un latte vischioso che sfuma nei toni pastello arancio-azzurro-grigio e che avvolge e confonde figure umane in azione. Nel ciclo di lavori su tela e su carta A Way To Stand Out infatti i soggetti tentano di “emergere”, in quanto sommersi e i livelli di lettura sono isobate. L’impianto della composizione è fuorviante e la metafora della marea che nel suo moto occulta e protegge descrive l’ambivalenza del messaggio latente. I toni soffusi, morbidi e sinuosi delle monocromie attirano lo sguardo inducendo i sensi ad abbandonarsi ad uno stato di pace “estetica/estatica” mentre poi, a voler ben cercare/capire/scandagliare (ed è fondamentale che ci sia la volontà di fare o non fare questo sforzo) ci si ritrova a fare i conti col soggetto, sempre violento e aggressivo, specchio perturbante di un aspetto della società contemporanea con la quale l’artista ci vuole confrontare. La natura umana sub-conscia.
Enrico Tealdi, Davies Zambotti ed Ettore Pinelli ci istigano, attraverso la distorsione delle loro visioni condensate ed intime, ad interpretare la realtà scavalcando “l’influenza anestetizzante dell’abitudine” proustiana per ritrovare “nel pensiero delle cose infinitamente tristi” un caleidoscopio complementare di interpretazioni/risoluzioni/intuizioni del e sul quotidiano. Una nota a margine da non sorvolare.
BIOs IN BREVE
Enrico Tealdi vive e lavora tra Cuneo e Torino.
Il suo lavoro è stato descritto come una poesia che si esprime con la pittura su carta ed installazioni che raccontano storie di affetti, legami, abbandoni e solitudini. Le sue opere parlano della nostalgia che si appropria degli oggetti, dei luoghi; della non curanza che ha l'uomo verso se stesso e il suo destino, in un' atmosfera di sospensione e mistero. Ha esposto in Italia e all'estero in mostre personali e collettive.
Davies Zambotti, vive e lavora tra Milano e Torino.
Attraverso i suoi lavori personali, ricerca e analizza l impossibilità della certezza umana, utilizzando il video e la fotografia come un microscopio, una lente con cui poter osservare le ombre fra gli interstizi del quotidiano.
Ettore Pinelli, vive e lavora a Modica.
“La mia ricerca inizia stando seduto davanti a uno schermo, facendomi permeare dalla potenza di certe immagini e scenari saturi di violenza. Scontri, sommosse e predominio, sono termini che ricorrono spesso all’interno di alcuni meccanismi nella mia pratica, a volte come decise iconografie e altre come fattori di analisi politica e sociale, quello che mi interessa maggiormente sottolineare, è la deriva di queste immagini, una sorta di distillazione perpetua, incontrollata e senza soluzione, che mostra un volto inquietante e veritiero del nostro presente. La pratica della pittura e del disegno sono i metodi di restituzione del pensiero che ho scelto, sono quelli più vicini alla mia sensibilità e che in qualche modo mi hanno sempre affascinato con tutte le loro dinamiche interne, dinamiche che cerco di fare affiorare in superficie in un movimento transitorio dalla figurazione verso l’astrazione, negando e distruggendo, avvicinandomi e allontanandomi, in una sorta di zoom in cui la volontà della pittura e del disegno sovrastano la mia.”
di Barbara Fragogna
"L'incertezza è l'habitat naturale della vita umana, sebbene la speranza di sfuggire ad essa sia il motore delle attività umane. Sfuggire all'incertezza è un ingrediente fondamentale, o almeno il tacito presupposto, di qualsiasi immagine composita della felicità. È per questo che una felicità "autentica, adeguata e totale" sembra rimanere costantemente a una certa distanza da noi: come un orizzonte che, come tutti gli orizzonti, si allontana ogni volta che cerchiamo di avvicinarci a esso." - Zygmunt Bauman
Venuta meno l'influenza anestetizzante dell'abitudine, mi mettevo a pensare, a sentire cose infinitamente tristi. – Marcel Proust
L’acqua di condensazione si frammenta in particole a volte estese e a volte minuscole e diventa schermo/filtro/lente per osservare, traducendolo in senso, il circostante. La condensa agglutina/sintetizza/addensa l’umore dell’occhio come un vapore, una nebbia che sale dal sedimento substrato transitando l’immagine-ricordo dal passato al presente. Sembra che ci sia un velo effimero a separare la nitidezza del reale dalla nostra percezione conscia ma nel lavoro di Tealdi, Zambotti e Pinelli, nonostante la peculiarità dei rispettivi casi specifici, si tratta sempre di un velo integrato, atmosfera lattiginosa incisa sulla retina, aria polverosa di un esistenzialismo fuori moda ma onesto e per questo puntuale, un tessuto di garza logoro di esperienze.
In Enrico Tealdi la condensa s’intride di memoria umida, uno sguardo apparentemente lontano che cerca indistinte figure di bagnanti che sono pagliuzze d’oro setacciate in Batee di carta e pigmento e velatura e tempo.. e tempo. Sembra di sentirla, la sabbia raspare sulla superficie diradando per scoprirne i preziosi ricordi, le persone perdute. E sembra di vederle apparire (ma non ci sono, sono chimere) dai campi da calcio solitari nei Nimbi, la poesia. C’è un silenzio profondo fatto di onde, vento, erba, mormorii, bisbigli e sussurri, c’è l’attesa e la stasi, c’è sospensione di movimento, c’è il pensiero, c’è la presenza fisica e pesante di tutto questo. I lavori sono distese sterminate addensate su piccolo formato, un nucleo precipitato che contiene il potenziale dell’esplosione del sentimento, ancora, la poesia esistenziale e malinconica, il delirio.
In Davies Zambotti la condensa è il fiato dalla bocca, sul vetro. Di oblò/sportelli/boccaporti, finestre sull’oltre. Il filtro è fotografico doppio o multiplo: occhio/lente/vetro/nebbia. Nelle sue Lande rincorre il fuoco fisso del movimento. La sfocatura e la dissolvenza, il paesaggio dirada e ritorna, dirada e ritorna, dirada e ritorna… un mantra, da dentro a fuori e viceversa. Il pensiero circolare, il loop compulsivo fugge ed evapora poi torna. La memoria è famigliare, i ritorni vengono sempre, sempre, sempre dal passato. Remoto. Condensa-densa come piombo. La pellicola è il suo viluppo e lo schermo non la protegge perché lo schermo è vacuo e osmotico. I paesaggi sfuggono, con uno sforzo istintivo cerchiamo di vederli nitidi ma non possiamo. Dopo un attimo ci abbandoniamo in essi lasciando che diventino lo spazio/interstizio, portale che, senza rendercene conto, apre un varco nel pensiero. Perdendosi nel privato.
In Ettore Pinelli la condensa è obnubilante. Un latte vischioso che sfuma nei toni pastello arancio-azzurro-grigio e che avvolge e confonde figure umane in azione. Nel ciclo di lavori su tela e su carta A Way To Stand Out infatti i soggetti tentano di “emergere”, in quanto sommersi e i livelli di lettura sono isobate. L’impianto della composizione è fuorviante e la metafora della marea che nel suo moto occulta e protegge descrive l’ambivalenza del messaggio latente. I toni soffusi, morbidi e sinuosi delle monocromie attirano lo sguardo inducendo i sensi ad abbandonarsi ad uno stato di pace “estetica/estatica” mentre poi, a voler ben cercare/capire/scandagliare (ed è fondamentale che ci sia la volontà di fare o non fare questo sforzo) ci si ritrova a fare i conti col soggetto, sempre violento e aggressivo, specchio perturbante di un aspetto della società contemporanea con la quale l’artista ci vuole confrontare. La natura umana sub-conscia.
Enrico Tealdi, Davies Zambotti ed Ettore Pinelli ci istigano, attraverso la distorsione delle loro visioni condensate ed intime, ad interpretare la realtà scavalcando “l’influenza anestetizzante dell’abitudine” proustiana per ritrovare “nel pensiero delle cose infinitamente tristi” un caleidoscopio complementare di interpretazioni/risoluzioni/intuizioni del e sul quotidiano. Una nota a margine da non sorvolare.
BIOs IN BREVE
Enrico Tealdi vive e lavora tra Cuneo e Torino.
Il suo lavoro è stato descritto come una poesia che si esprime con la pittura su carta ed installazioni che raccontano storie di affetti, legami, abbandoni e solitudini. Le sue opere parlano della nostalgia che si appropria degli oggetti, dei luoghi; della non curanza che ha l'uomo verso se stesso e il suo destino, in un' atmosfera di sospensione e mistero. Ha esposto in Italia e all'estero in mostre personali e collettive.
Davies Zambotti, vive e lavora tra Milano e Torino.
Attraverso i suoi lavori personali, ricerca e analizza l impossibilità della certezza umana, utilizzando il video e la fotografia come un microscopio, una lente con cui poter osservare le ombre fra gli interstizi del quotidiano.
Ettore Pinelli, vive e lavora a Modica.
“La mia ricerca inizia stando seduto davanti a uno schermo, facendomi permeare dalla potenza di certe immagini e scenari saturi di violenza. Scontri, sommosse e predominio, sono termini che ricorrono spesso all’interno di alcuni meccanismi nella mia pratica, a volte come decise iconografie e altre come fattori di analisi politica e sociale, quello che mi interessa maggiormente sottolineare, è la deriva di queste immagini, una sorta di distillazione perpetua, incontrollata e senza soluzione, che mostra un volto inquietante e veritiero del nostro presente. La pratica della pittura e del disegno sono i metodi di restituzione del pensiero che ho scelto, sono quelli più vicini alla mia sensibilità e che in qualche modo mi hanno sempre affascinato con tutte le loro dinamiche interne, dinamiche che cerco di fare affiorare in superficie in un movimento transitorio dalla figurazione verso l’astrazione, negando e distruggendo, avvicinandomi e allontanandomi, in una sorta di zoom in cui la volontà della pittura e del disegno sovrastano la mia.”